JAZZ STUDIES


Luigi Mangiocavallo

Bill Evans e Oscar Peterson: qualche punto di incontro.

Rocco "Scott" LaFaro (1936-1961), dopo aver provato a studiare clarinetto e sassofono, iniziò a suonare il contrabbasso in gruppi di rhythm & blues nel 1953. Terminati gli studi (compreso qualche tempo al conservatorio), dal '55 ebbe modo di collaborare con Buddy Morrow, Chet Baker, Sonny Rollins, Richie Kamuca, Barney Kessel e Cal Tjader. Dopo alcuni viaggi e soggiorni in California e a Chicago, si trasferì a New York e lavorò con Benny Goodman nel 1959 e con un suo trio.

Registrò con Beverly Kelly, Victor Feldman, Buddy DeFranco, Stan Kenton, Tony Scott e Hampton Hawes ma soprattutto partecipò all'importante album di Ornette Coleman, Free Jazz, a collective improvvisation, nel dicembre del 1960. Con Coleman, tra il 1959 e il 1961, registrò anche Twins, Ornette! e The art of the improvisers, sostituendo l'amico Charlie Haden. In quest'ultimo album, Coleman gli dedica uno dei brani, The Alchemy of Scott LaFaro, in cui la magia sembra svelarsi proprio nei chorus di assenza della sezione ritmica (con Ed Blackwell alla batteria), gli ultimi, in cui il vuoto straniante lasciato dall'improvvisa interruzione della energica propulsione di LaFaro impone all'ascoltatore la vitale necessità del suo rientro, come puntualmente avviene nell'esposizione finale.

Poco prima della sua morte, con Stan Getz registrò Stan Getz Special vol.1, nel 1961.

LaFaro, incontrato durante un'audizione per il gruppo di Chet Baker, entrò a far parte del trio di Bill Evans (1929-1980) nel dicembre del 1959 e vi rimase fino alla morte, avvenuta nel giugno del '61 a causa di un incidente stradale, vicino a Geneva, la città dove viveva nello stato di New York.

Con Evans e Paul Motian alla batteria, LaFaro registrò:

Tra il 1959 e il 1961, l'alternanza tra Ornette Coleman e Bill Evans ebbe certamente un grande impatto sulla sua creatività e maturazione artistica, riversando da un contesto all'altro alcuni elementi peculiari della sua tecnica e della sua musicalità che lo distingueranno, nonostante la brevissima carriera, come uno dei più innovativi e influenti contrabbassisti della storia del Jazz. Da un lato, il virtuosismo e il potente fraseggio imprimono grande forza alla musica colemaniana fatta di colori ed emozioni intense. Dall'altro, la capacità di un avere suono leggero e cangiante, la straordinaria facilità tecnica e melodica furono di grande stimolo per Evans.

Possiamo dire che con LaFaro (e col suo amico Charlie Haden) il contrabbasso nel Jazz vive una nuova svolta emancipatrice, dopo quella impressa da Jimmy Blanton.

Venendo a Bill Evans, ricordiamo che il pianista, oltre alla registrazione dei suoi primi dischi in qualità di leader del suo trio (New Jazz Conceptions del 1956 con Teddy Kotick e Paul Motian e Everybody Digs Bill Evans del 1958 con Sam Jones e Philly Joe Jones) era reduce da numerose importantissime collaborazioni, tra cui quelle con George Russel, Tony Scott, Charles Mingus, Cannonball Adderly, Warne Marsh e Art Farmer. Senza dubbio, la sua più importante collaborazione, anche se breve, fu quella col quintetto e sestetto di Miles Davis, featuring John Coltrane, che si protrasse dal maggio del 1958 all'aprile del 1959, con cui registrò alcune pietre miliari del Jazz, tra cui Kind Of Blue del '59.

E' per il piano trio, formazione poco usuale nei primi decenni del Jazz, guardata e praticata come una delle più nobili e intime nel Jazz più moderno (dall'esempio di Errol Garner del 1944 in poi), che Evans produce la maggior parte delle sue registrazioni in circa 25 anni di attività. La sua sensibilità e il carattere introverso trovavano, evidentemente, un'ambiente ideale in quella piccola dimensione, che poi (dopo la morte di LaFaro) restringerà ancora, tornando al piano solo o, emblematicamente, dialogando direttamente con se stesso (in Conversations with Myself, all'inizio del 1963).

Il trio di Evans, quindi, dopo aver incontrato i contrabbassisti Teddy Kotick e Sam Jones, incluse finalmente un ventitreenne che da poco aveva imbracciato il contrabbasso, Scott LaFaro. Grazie anche (o soprattutto) alla presenza attiva di quest'ultimo, a Paul Motian, batterista dal drumming sottile e rarefatto e all'ormai artisticamente maturo Evans, il trio ebbe una radicale evoluzione, basata sulla parità di ruoli dei tre protagonisti.

L'uso della trama contrappuntistica, in un contesto ritmico di una certa complessità, anziché il semplice accompagnamento walking e la continua proposta di linee antagoniste di tutti gli strumenti arricchiscono immediatamente il quadro del piano trio, con ripercussioni su tutto il resto del panorama del Jazz. Tale formazione strumentale non fu più la stessa, rispetto a quella degli anni precedenti la collaborazione di Evans e LaFaro.

La stesse dinamiche, interne ed esterne, delle sezioni ritmiche dei quartetti, quintetti o orchestre che dir si voglia, cambiarono in generale dopo le registrazioni di Evans. Ne ritroviamo subito l'impronta nel trio di Herbie Hancock, Ron Carter e Tony Williams, che collaborò (non possiamo usare verbi come accompagnò o sostenne) con Davis e Coltrane negli anni '60.

Le sorprese dell'esplorazione armonica che si realizzava combinando il raffinato pianismo di Evans (dichiarato il suo interesse per i classici, soprattutto Chopin, Debussy e Ravel) con le linee inusuali di LaFaro, il senso del dialogo, il gioco di challenge/response, i luoghi di vuoto e di spazio libero e le dinamiche di un pulse spesso fluttuante (Evans stesso parlò di tempo interiore) rendevano quel trio profondamente innovativo nel panorama jazzistico.

Evans dichiarò il suo intento programmatico, riguardo al trio, in questo modo: "...se il bassista, per esempio, ascolta un'idea a cui vuole rispondere, perché dovrebbe semplicemente continuare a suonare un background in quattro quarti? Non riesco a capire perché questa scansione basilare debba continuare a essere battuta con forza per anni e anni, quando altri elementi, che hai dentro e che sono più sottili, possono essere evidenziati e proiettati..." (trad. da intervista pubblicata postuma nel 1995).

Insomma, per dirla breve e col linguaggio classico europeo, parleremmo di concezione del trio in modalità concertante. Il termine viene introdotto in Italia tra il Cinquecento e il Seicento a definire una molteplicità di elementi che interagiscono nella composizione, ad esempio voci sole e coro, voci e strumenti oppure sezioni di carattere diverso che si uniscono in successione. Più avanti, nel XVIII e all'inizio del XIX secolo, troviamo il termine concertante per definire ancora il tipo di interazione tra gli strumenti che poteva realizzarsi, ad esempio, all'interno di un quartetto, di una sinfonia o, appunto, di un trio. Il quartetto concertante è quello in cui il predominio del primo violino è mitigato dal dialogo con gli altri tre strumenti. La sinfonia concertante, molto in voga alla fine del Settecento, prevede alcuni strumenti solisti che dialogano con l'orchestra.

Per fare un paragone diretto, possiamo esaminare i primi trii di Haydn o di Mozart, notando che si tratta di vere e proprie sonate per cembalo con accompagnamento di violino e di violoncello (che raddoppia la mano sinistra del cembalo, come nella pratica del basso continuo). Molti compositori, loro contemporanei, ponevano nei frontespizi delle loro edizioni perfino la dicitura "ad libitum" riguardo le parti di violino e violoncello, per indicare che, anche in mancanza di tali strumenti, la composizione, concepita soprattutto per la tastiera, aveva ugualmente autonomia.

Se però ci spingiamo poco più avanti negli anni, esaminando gli ultimi trii di Mozart, dal K496 al K564 (siamo nel 1786-88), riscontriamo un coinvolgimento maggiore degli archi, che raggiungono un forte grado di indipendenza e importanza, con ruolo di esposizione tematica (anche se sempre successiva a quella del pianoforte) e di dialogo attivo. Da quel momento in poi, nel trio con pianoforte, la parità delle parti è conquistata e verrà sancita definitivamente da Beethoven con l'op. 70 n. 2 del 1808, in cui sono subito gli archi a esporre i temi e con l'op. 97, il celebre trio del 1814 dedicato all'Arciduca Rodolfo d'Austria, in cui addirittura il violoncello, l'ultimo di un tempo, diventa spesso protagonista ancor più del violino.

In questo breve excursus storico del trio con pianoforte classico abbiamo praticamente ricostruito, mutatis mutandis, l'evoluzione del piano trio nel Jazz, con la ricerca della uguaglianza nel dialogo e della parità del diritto alla proposta e alla risposta di tutti i soggetti in causa.

Tornando al trio di Bill Evans, la fortuna ha voluto che un editing audio piuttosto favorevole al contrabbasso ci consegnasse, nella registrazione delle sessioni live del 1961 al Village Vanguard, una testimonianza perfetta dell'arte di LaFaro e della sua integrazione con gli altri. Il risultato che si riscontra, nella netta separazione del contrabbasso sul canale sinistro, mentre il piano è quasi isolato su quello destro della stereofonia, è di grande evidenza. Una tecnica straordinaria, acquisita in pochissimi anni di esperienza, al servizio di una concezione melodica e ritmica sempre in grande attività. Evans, di conseguenza, si lascia trascinare e si abbandona, diventa poeta nel vuoto e nell'incertezza o swinga con sicurezza spinto da un drive instancabile.

All'uscita di scena di LaFaro, l'interplay (termine divenuto molto significativo dopo quelle esperienze) del trio di Evans tornò subito meno evidente con il contrabbassista successore, Chuck Israel. Anche se ormai la strada era inesorabilmente tracciata, il trio di Evans riacquisì con fatica tutta la capacità dialogante dei suoi componenti negli anni successivi e con vari tentativi. Solo con musicisti del calibro di Gary Peacock e Eddie Gomez, Evans potè allentare nuovamente il predominio del pianoforte nel rapporto a tre.

Oltre alla brusca interruzione che il trio di Evans, LaFaro e Motian dovette subire in termini operativi (e quindi non solo produttivi ma anche artistici e creativi) è da rilevare anche l'impatto emotivo che la scomparsa di LaFaro ebbe su Evans, già personalità difficile e tormentata, che divenne ancora più chiuso, insicuro e ombroso. Nonostante o, proprio perché introverso, la sua ricerca del contatto umano subì una dura privazione in quel tragico giugno del 1961 e le sue parole a tal riguardo sono significative: "... a parte i rilevanti problemi tecnici e di coerenza del pensiero collettivo, c'è una necessità molto umana, anche sociale, di simpatia e comprensione di tutti per il conseguimento di un risultato comune" (Bill Evans, trad. dalle note riportate nell'edizione originale di Kind of Blue).

Ray Brown (1926-2002) incontrò Oscar Peterson (1925-2007) nel 1949, in occasione di uno dei concerti della serie Jazz at the Philarmonic organizzati dall'impresario Nornan Granz. Quasi naturale doveva essere l'influenza di Jimmy Blanton su ogni contrabbassista del suo tempo. Così fu anche per il giovane Brown.

Il suo arrivo a New York lo portò subito a suonare con Art Tatum, Hank Jones, Dizzy Gillespie (che lo chiamò con sé dal 1946 al 1951), Milt Jackson, John Lewis, Kenny Clarke e Charlie Parker. L'incontro con Ella Fitzgerald nella band di Gillespie lo condusse anche al matrimonio.

Le sue collaborazioni furono numerose e godette di grande prestigio nel mondo del Jazz, con numerosi riconoscimenti, ma qui ci limitiamo a osservare brevemente la sua carriera nell'ambito della storia dei trii di Oscar Peterson.

Peterson è stato uno dei più importanti pianisti del Jazz, anche se possiamo essere in parte d'accordo con i molti detrattori che ne hanno rintracciato i limiti nella poca innovatività del suo linguaggio. Effettivamente Peterson è rimasto stabile per tutta la sua vita su un livello altissimo del pianismo Jazz, senza tuttavia produrre svolte o rivoluzioni nella storia (quel cosiddetto mainstream che ha costituito l'altipiano sicuro nell'evoluzione del Jazz). Ciononostante, senza dubbio, la sua tecnica strabiliante da un lato e l'estrema raffinatezza armonica e timbrica dall'altro, unite dall'incredibile groove del fraseggio come del comping, non hanno potuto non suggestionare potentemente chiunque si sia interessato di Jazz e specialmente di piano Jazz.

Dopo alcune esperienze nei trii degli anni '40, Peterson incontra Brown, come abbiamo detto, e registra addirittura in duo con lui nel 1950 Tenderly (una prima versione), Keyboard e An evening with Oscar Peterson. Inizia così una grande collaborazione, che riprende nel 1952 in trio. Ma il trio di Peterson di questo periodo include non la batteria bensì la chitarra, come già sperimentato nel 1949 col chitarrista Ben Johnson nella registrazione di Rockin' in Rhythm.

Questa configurazione del piano trio con chitarra ha origine dai primi esperimenti del 1937 del pianista Clarence Profit, in cui l'uso della chitarra elettrica permetteva finalmente un giusto equilibrio tra gli strumenti. Sulla scia di Profit, Nat Cole formò il suo trio con chitarra che operò con grande successo per circa un decennio. Si sciolse nel 1947 per dar spazio alla brillante carriera di cantante di Cole il quale, anche col trio, cantava sporadicamente qualche canzone "...per rompere la monotonia...", come egli stesso confessò. Proprio il ruolo di cantante di Cole portò al suo trio grande notorietà e questo fattore fu importante per l'affermazione del piano trio, sia nella sua configurazione con chitarra che con batteria.

A influenzare fortemente Peterson non fu solamente il trio con chitarra di Cole ma anche quello, ben più agguerrito tecnicamente, di Art Tatum, virtuoso della tastiera a cui dovrà molto. Col pianista canadese, alla chitarra si alternarono Ben Johnson, Barney Kessel, Irving Ashby e, dal 1953, Herb Ellis, con cui si produsse in un'interminabile successione di concerti e dischi.

A parte gli esperimenti giovanili, dal 1958 Oscar Peterson adottò la formazione del trio con batteria. Insieme a Ray Brown e Ed Thigpen, iniziò una sterminata serie di concerti e registrazioni fino al 1965. In questo stesso anno, tornò alla chitarra di Herb Ellis, dichiarando e pubblicando un tributo a Nat Cole intitolato With respect to Nat. Sempre dal 1965, il trio di Peterson inizia a variare la sua composizione, ospitando vari musicisti. Altri bassisti di rilievo saranno Sam Jones, Georg Mraz e il virtuoso danese Niels-Henning Orsted Pedersen, che proprio nel '65 avrà una breve collaborazione anche con Bill Evans. In questa ricerca continua, il trio non negò il ritorno alla chitarra, prima con Joe Pass, poi ancora con Herb Ellis.

Dopo il devastante ictus che lo colpì nel 1993, Peterson, ormai privato della sua tecnica estrema e quasi impossibilitato alla mobilità corporea e all'uso delle mani, reagì coraggiosamente. Dopo una dolorosa riabilitazione riprese a suonare. Sono stati toccanti i momenti che abbiamo vissuto nel vederlo suonare, in condizioni in cui una volontà e una musicalità ancora prodigiose si scontravano con una impossibilità di fatto del controllo delle dita.

In quel difficile periodo, il vecchio amico Ray Brown lo invitò a registrare con un trio che ormai portava il proprio nome ma che nel titolo del disco evocava un gesto di profonda amicizia verso il grande pianista: Some of my best friends are... the piano players, del 1994. La tristezza che abbiamo provato noi ci dà l'idea di ciò che può aver avvertito Brown nell'accompagnare ancora una volta l'amico sofferente e, forse, moltiplicata ancora, ci fa intuire il senso di vuoto e di solitudine che colpì Evans con la tragica scomparsa di LaFaro.

Gli aspetti umani sono importanti al pari e forse più di quelli artistici e ne condizionano pesantemente l'evoluzione. Da una parte l'assenza prematura di LaFaro, al termine di una vita intensissima ma troppo breve, dall'altra la lunga carriera di Peterson terminata con una angosciante coda e col trascinarsi da un palcoscenico all'altro, quasi fantasma di sé, fino alla morte sopraggiunta pochi anni fa. Anche due percorsi artistici così diversi, sebbene interrotti entrambi in maniera tanto sconvolgente, ci riportano alla tragica dimensione umana dell'artista che perde una parte di sé.

Abbiamo detto che, all'irrompere sulla scena jazzistica di Peterson, nessun pianista poteva non sentirne gli echi, almeno per quanto riguarda la perfezione del suo pianismo, intesa in senso classico, la bellezza del suono e del tocco, la limpidezza del fraseggio, l'effetto magico dello sgranarsi ora arpeggiato ora granitico delle armonie. Evans e Peterson, il bianco e il nero, avevano tutto questo in comune. Erano musicisti colti, sensibili e raffinati.

Peterson, il nero, possente dominatore (anche in senso fisico) della tastiera, lo abbiamo visto interrompere l'esecuzione di un suo brano di piano solo, in un concerto di molti anni fa a Basilea, per chiedere agli invadenti fotografi di farsi da parte, di voler considerare un concerto di Jazz alla stessa stregua di un concerto di musica classica e di portare uguale rispetto. L'arte è una cosa seria. Anche il Jazz, disse.

Ma i caratteri di Evans e Peterson, quasi antitetici, hanno generato due artisti profondamente diversi. Introverso l'uno, che qualcuno ha addirittura accusato di non saper swingare o di non sapersi misurare col blues, estroverso e istrionico l'altro, dotato di uno swing che ti mette in moto anche le viscere più profonde e di un virtuosismo che stordisce.

Allo stesso modo, le loro collocazioni nell'ambito del trio sono state diverse. Il pianoforte naturalmente era, per tradizione, lo strumento leader del trio. Evans ha evidentemente dominato i suoi primi trii (quelli del '56 e del '58) ma lo spazio del suo piano si è, per così dire e in un certo senso quantitativo, ridimensionato con l'arrivo di LaFaro. Nel caso di Peterson tale ridimensionamento non poteva avvenire nella stessa misura, considerando il suo esuberante, talvolta debordante, pianismo. Ma qualcosa è avvenuto anche con quest'ultimo. Cerchiamo di capire.

Bill Evans registra col piano solo nel settembre del 1956 la sua composizione Waltz for Debby. E', appunto, un valzer in tempo 3/4, dedicato al nipote Debby Evans. Il 25 giugno del 1961, il trio di Evans, LaFaro e Motian registra in uno stesso giorno ben cinque sessions live al Village Vanguard di New York. Tra i brani registrati c'è anche una nuova versione, questa volta in trio, di Waltz for Debby. La nuova registrazione, il cui secondo take sarà incluso in un disco che ne porta lo stesso titolo, arriva in un momento di maggior fama per Evans e, rispetto a quella rilasciata in New Jazz Conceptions, gode di una diffusione maggiore, tanto che poco più di un anno dopo, il 25 settembre del 1962, Peterson ne inciderà una propria versione, in trio con Ray Brown e Ed Thigpen. Il disco si intitola Affinity, proprio come quello che Evans registrerà molto più tardi, nel 1978, con Toots Thielemans e altri. Strane coincidenze o forse qualcosa di più, non sappiamo ma cerchiamo di leggere i fatti, fermo restando come sia evidente il tributo a Evans e alla memoria di LaFaro dell'ormai celebre trio del grande pianista canadese e del pluripremiato bassista di Pittsburgh.

La versione di Evans è leggera, cristallina e l'incipit è giocato con accordi in punta di piedi, un tintinnìo, mentre il contrabbasso parte da una tessitura acuta, quasi timido. Il tutto suona per un po' ingenuo, quasi infantile e si concretizza brevemente nel registro medio prima di riprendere il gioco per mezzo di una scala sfuggente di accordi ascendenti (track 01).

La sezione B è invece pervasa da intense armonie che animano la composizione di malinconia (track 02).

Anche la chiusa dell'esposizione si muove più scorrevolmente in una certa profondità (track 03).

Terminato il tema, sia il carattere dolce e soave che quello malinconico vengono messi da parte e si passa a un intro in 4/4 pieno di swing che introduce i chorus di improvvisazione. Qui entra anche Motian con le spazzole e la struttura armonica del tema viene proposta rimanendo in tempo binario (track 04).

Peterson antepone un'interessante intro al tema. Inizia subito in 4/4 con una situazione di call & response tra piano-batteria e contrabbasso, poi passa per 4 battute al 3/4 accennando il valzer, poi di nuovo in 4/4 un ritmo concitato con accenti in 3/8 interrogando ancora il basso solo di Brown (track 05).

La risposta del contrabbasso di Brown al termine dell'intro si inerpica fino alla stessa nota (un la3) con cui LaFaro inizia il tema del suo Waltz for Debby e segue una esecuzione quasi testuale della composizione di Evans, così come da lui registrata l'anno prima (track 06).

Nella sezione B, Peterson esegue accordi più estesi e arpeggiati rispetto al modello originale di Evans (track 07).

Il cambio di tempo in 4/4, con relativo intro di 8 misure ai chorus di improvvisazione, è ripreso anch'esso quasi testualmente dal trio di Peterson. Il pianista canadese si lancia poi in un solo pieno di crescente swing e di volatine, da par suo (track 08).

Si possono notare molte differenze tra le due performances.

L'esposizione di Evans e LaFaro, drumless, è sognante, dall'incedere ritmico incerto grazie a uno splendido uso del rubato. I momenti malinconici sono profondi e bellissimi.

Peterson e Brown sono invece legati all'incalzante gioco di spazzole di Thigpen e non hanno modo di respirare. Il loro valzer suona un po' più banale e regolare, una esecuzione elegante e piacevole ma piuttosto "formale". Nella sezione B, alla malinconia di Evans Peterson contrappone uno splendido snocciolamento di accordi arpeggiati, perle limpide, ma non altrettanto emozionante.

C'è, tuttavia, un importante fattore che determina, oltre al carattere dei nostri musicisti, una profonda differenza di phatos. Ricordiamo che il trio di Evans registra dal vivo al Village Vanguard mentre quello di Peterson lo fa in studio. Crediamo che questo abbia condizionato molto l'intensità dell'interpretazione. Peterson e Brown, pur diversi da Evans e LaFaro, si sono dimostrati più volte capaci di belle ed emozionanti prove, soprattutto quando il trio vedeva la chitarra al posto della batteria. Quella dimensione più intima ha prodotto momenti molto belli. Sono da ascoltare alcune tra le tante registrazioni, anche precedenti agli anni '60, come ad esempio l'album Tenderly del 1958, in cui, con Herb Ellis e Ray Brown, si tesseva un dialogo serrato e una vera e propria orchestrazione, con arrangiamenti complessi da trio "concertante".

I chorus di improvvisazione di Evans, sebbene abbiano una buona dose di swing, serbano la malinconia che abbiamo già rilevato nell'esposizione. Lo "spazzolamento" di Motian rimane leggero  e, soprattutto, il contrappunto di LaFaro  infonde una tale incertezza, tra passaggi ora ben definiti ora ambigui, che spesso non sembra chiaro chi stia realmente facendo l'assolo (track 09).

Infatti, sappiamo bene come in Evans vi sia, nei soli come nell'accompagnamento, la prodigiosa capacità di svanire e di rimanere a colorare, con poche note o con un grappolo di accordi evan(s)escenti la conversazione con i suoi partners.

L'assolo di Ray Brown si svolge sulla sezione A della struttura armonica. Qui Peterson semplifica l'armonia della composizione e l'effetto è quello di un'atmosfera più pensosa, quasi a evocare il giovane scomparso da poco, in un momento più rilfessivo e mesto. Nel sezione B, il piano di Peterson entra sornione e, dialogando col contrabbasso, riconduce verso una ripresa concertata con andamento più leggero (track 10).

Di ben diverso spessore, fantasia e qualità, il solo di LaFaro si appropria di due chorus interi. Non spendiamo parole per descriverlo ma lo ascoltiamo e basta (track 11).

Per finire il confronto delle due interpretazioni di Waltz for Debby, segnaliamo il bel finale del trio di Peterson, in cui piano e basso dialogano e si perdono con una bella magia di Peterson, il quale produce un glissato con la mano direttamente sulle corde del piano (track 12).

Qualche tempo dopo, nel settembre del 1964, il trio di Peterson registra un album di composizioni dello stesso pianista intitolato Canadian Suite. Tra i brani incisi ne ritroviamo ancora una volta uno in tempo ternario, dal titolo Laurentide Waltz. Dopo l'interpretazione di quello evansiano, for Debby, Peterson, nella raccolta di brani dedicati alla sua terra, il Canada, ne vuole uno suo, per Laurentide, il preistorico ghiacciaio che copriva buona parte dell'America settentrionale. Non resistiamo alla tentazione di cercare anche in questo brano le assonanze col valzer di Evans e ci inoltriamo brevemente in una comparazione delle due composizioni-esecuzioni, rilevandone le caratteristiche con l'ascolto delle loro realizzazioni discografiche, così come sono state consegnate alla storia.

Peterson inizia il tema col piano solo. Non ci sono più alternaze di tempo ternario/binario. La sua libertà è grande e si concede rubati che gli conferiscono un andamento quasi wiener "alla viennese". Nel secondo A, entra il contrabbasso con l'arco che suona le note fondamentali. Da notare le rapide scale ascendenti di terze a rilanciare le sezioni, che ricordano le omologhe successioni di accordi in drop-2 di Waltz for Debby (track 13).

La parte B è costruita su una progressione armonica che procede per quarte ascendenti (o quinte discendenti), proprio come l'incipit di Waltz for Debby e Peterson, ancora accompagnato dall'archetto di Brown, si lancia libero scandendo le battute in un solo gesto, rapido. Da notare che la progressione armonica, ripetuta due volte e formulata con la coppia di accordi "min7b5 - 7b9", procede esattamente come nel finale di Stella by starlight, sebbene nella tonalità di reb anziché in quella di sib (track 14).

Un intro su pedale di dominante, in cui basso e batteria (ancora con spazzole) giocano a contrappuntarsi su una successione di accordi molto intensi del piano, porta a una nuova esposizione delle due sezioni A del trio al completo. Già dall'intro si intuisce un'altra linea di condotta musicale rispetto alla registrazione di Waltz for Debby di due anni prima. Nonostante si tratti ancora di una registrazione in studio, i caratteri emozionali sono diversi, più intensi. Brown lascia l'arco e, nei riposi del tema, si lancia in passaggi acuti. Anche il brushing di Thigpen appare più vago, leggero, disponibile questa volta a non imporre una scansione troppo rigida  (track 15).

La sezione B ci conferma l'evoluzione che abbiamo intuito. Peterson non suona il tema, così come lo aveva esposto all'inizio col piano solo, ma si lascia andare a volatine leggere, contrappuntato splendidamente da Brown. La lezione di LaFaro è appresa. Un Ray Brown, allora trentottenne, fa grande tesoro del lascito di un LaFaro venticinquenne e ricama di belle figure la sua linea, pur sapientemente ancorata al fondamento dell'armonia (track 16).

Il primo chorus di solo è di un pianoforte che, leggero, sembra stentare. Brown, col suo contrappunto ritmicamente vario e ricco di passaggi acuti, sembra quasi prevalere. Il gioco tra i due è interessante e, anche laddove Peterson inizia a sciorinare le sue incredibili volatine, il ruolo del basso tiene desta l'attenzione su di sé. Anche il ritmo di alcuni passaggi finali del piano ci sorprende (track 17).

L'assolo di Brown si svolge sulle due sezioni A e, nonostante sia penalizzato un po' da una registrazione non eccellente dal punto di vista tecnico, si rivela molto bello. Il piano di Peterson accompagna in modo esemplare. Non riusciremmo a distinguerlo da Evans. Intenso, ritmicamente vago, dal suono dolcissimo. L'insieme è perfetto, il trio concertante è realizzato (track 18).

L'ultimo B che ascoltiamo (questa sezione sarà omessa nella riesposizione) vede di nuovo il contrappuntare di piano e basso, come già avvenuto nell'esposizione (track 19).

Infine, dopo la riproposizione di un A, la coda è lasciata al pianismo più classico di Peterson. Accordi e arpeggi pieni che percorrono tutta la tastiera dando colori di un'intera orchestra sinfonica, sostenuti dall'archetto del contrabbasso (track 20).

Finalmente, una bella performance di un trio maturo. Pur mantenendo i caratteri personali dei musicisti, l'interplay è intenso e ben giocato. Il ruolo del contrabbasso sembra imporre al piano non un ridimensionamento ma un ascolto maggiore, con un risultato molto più interessante e vivo.

Peterson continuerà sempre ad avere una profonda considerazione della formazione in trio. Persino ciò che sarà un vero e proprio quartetto, nel 1990, quello con Herb Ellis, Ray Brown, Bobby Durham alla batteria, verrà chiamato da Peterson nientemeno che "double trio". Anche Ray Brown, dal canto suo, avrà il proprio trio e registrerà fino ai suoi ultimi anni, molto più longevo del memorabile LaFaro.

Abbiamo brevemente percorso la storia di due grandi contrabbassisti, per convergere sulla figura di due grandi pianisti del Jazz, diversi tra loro, fino ad arrivare a una situazione in cui i personaggi si sono toccati con un dito, in un certo passaggio della loro storia artistica e umana. Non sappiamo quanto ci sia di reale e concreto a supportare l'idea di quelle due dita metaforiche che si incontrano ma ci piace, quando possibile, immaginare e sognare.

Cosa sarebbe, in fondo, l'arte se non ci insegnasse a capire meglio l'essere umano e se non ci lasciasse sognare un po'?

Bill Evans e Oscar Peterson: qualche punto di incontro

Luigi Mangiocavallo

9 Luglio 2011


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